
A cura dell’Associazione Artistica IVNA e della Confraternita dei Sacconi e delle Dame di Santa Giacinta Marescotti
In occasione dei Festeggiamenti dei Santi Patroni Biagio e Giacinta Marescotti, il parroco di Vignanello, don Francesco Rossi de Gasperis, insieme al Comitato Festa Patroni Vignanello Classe 1984 hanno invitato Don Roberto Daniele Baglioni a presiedere la Solenne Celebrazione Eucaristica in onore dei Patroni della Città, Santa Giacinta Marescotti, Vergine, e San Biagio, Vescovo e Martire, Domenica 3 Agosto, giornata, quella odierna, in cui le Classi si sono passate il testimone nell’animazione di attività e feste nel corso di tutto l’anno.
Il Teologo Prof. Roberto Daniele Baglioni, parroco fino allo scorso marzo della cittadina di Vignanello, ha espresso la sua Gratitudine, sentendosi onorato, e un pochino commosso di tornare nella Parrocchia che ha guidato per un decennio. La sua omelia, che incorporiamo integralmente, ha spiegato in modo efficace e coinvolgente il significato di santità in un percorso interiore partendo dall’ambientazione dei due Santi nel loro periodo storico e secondo la loro esperienza personale e spirituale calandolo nel valore della santità e della sua scoperta nella nostra realtà contemporanea in un percorso artistico, sociale nella pratica relazionale della fede e della carità. Quanto articolato con la parola lo riproponiamo qui integralmente come testimonianza di come vivere autenticamente le feste patronali.
“Sembrerebbe che non dobbiate mai liberarvi di me! Le circostanze ci vedono ancora insieme per portare a 10 il numero di volte in cui abbiamo celebrato insieme (anche) questa festa estiva.
Buon segno, direi! Questo vostro invito, e del parroco Don Francesco, che ringrazio per la fiducia e l’amicizia. È evidentemente segno di legami che restano nel nome di Gesù, di vite che hanno inciso le une sulle altre. Vedete, amici, una caratteristica, uno scopo – il 1° e più importante – del Comitato festeggiamenti, è e deve essere esattamente questo: costruire relazioni, e diffondere la comunione fraterna più che fare; l’essere viene prima del fare, dell’organizzare e dell’animare la festa. «Vanità delle vanità, dice Qoèlet – nella prima lettura di oggi»; se non avremo nutrito l’essere in Cristo e le relazioni ecclesiali – cito ancora dal testo –
«quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?».
Se la nostra natura più profonda e l’identità dell’essere è ciò che conta, domandiamoci allora: Che cosa siamo, siamo stati, o chi saremo? – parlo al comitato uscente e a quello entrante, ma non solo – e che relazioni abbiamo intenzione di costruire? Siamo impresari del terzo settore (fornitori di servizi)?: giochi, eventi, sfilate, bande, cantanti. Siamo comparse che recitano una parte? quella dei devoti/ “legati” senza sapere perché e con quali conseguenze? Oppure siamo attori, protagonisti in avamposto (come soldati in battaglia) della costruzione di una comunità e di una società veramente cristiana, fraterna, quali fratelli di Gesù, seguaci di Gesù, figli del Padre, animati dello Spirito dell’Amore di Dio e disposti a lottare per diffonderlo? Saremmo così imitatori, oltre che ammiratori di questi Santi.
Ma…c’è un problema enorme: vale a dire la distanza oggettiva tra noi e questi Santi, fra la nostra cultura e il loro mondo, fra le nostre aspettative e i loro valori. Parliamoci chiaro: una giovane contessina, «vissuta fra comodità e sciocchezze» – come recita una delle sue biografie, privata della libertà di scegliere l’uomo della sua vita, costretta in un monastero, che si converte e riscopre Gesù per “colpa” di una grave malattia, che fa continue penitenze per sentirsi vicina a lui, e che muore piuttosto giovane… non attrae, non ci attira.
Non è affatto un modello – in questa cultura liquida e svuotata di Cristo –, né per i giovani, né per i quarantenni di oggi! Ed ancora un prete, un vescovo – san Biagio – il cui racconto si perde nelle nebbie della storia, del quale poco altro sappiamo se non che morì mezzo scorticato, martire, nonostante qualche miracolo di guarigione: beh nemmeno lui ci attrae, nel senso di muoverci a quell’ammirazione che tende all’imitazione, nell’oggi. E così accade che preferiamo distrarci da quelle vite venerate in pubblico ma poco attraenti nel concreto; amiamo piuttosto divertirci, dove il verbo “divèrtere” significa proprio “uscire-deviare dalla strada / volgere lo sguardo altrove”, quasi sempre lontano dal volto di Cristo e dalla sua sequela, come invece hanno fatto loro. L’autore della Lettera agli Ebrei – è la lettura della festa di san Biagio – ha in mente un contesto sportivo quando immagina i cristiani santi che ci hanno preceduto seduti sugli spalti a tifare per noi ed esortarci, mentre noi, sportivi della fede – cito alla lettera – «deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,1-2). Siamo chiamati a fidarci della sua fiducia in Dio, ad andare dietro a Colui che ci fa da apripista, e ci trascina dietro a lui nella lotta, perché con lui vinciamo anche la morte e siamo così partecipi della stessa gioia!
Amiamo distrarci – dicevo – con tante cose da fare. Cose belle ed anche utili, ma che il più delle volte sono di contorno, che costituiscono il contenitore e non il contenuto; la cornice invece del dipinto: quel disegno meraviglioso che il Signore ha tratteggiato per queste due vite sante, quella di una giovane e altera nobildonna vignanellese e quella del medico e vescovo di Sebaste (attuale Turchia). Opere d’arte cristiana viventi!
Santa Giacinta Marescotti. Attenta ai poveri, ai malati, agli ultimi, operatrice prodigiosa e infaticabile di pace nelle famiglie e nella città.
San Biagio, già medico al servizio della cura dei suoi concittadini, chiamato a guarire come Pastore solerte anche lo spirito dei suoi fedeli. Quanti semi di vita avrà gettato annunciando il Vangelo, con quanta fatica avrà guidato quel popolo, santificandolo e curandolo con la preghiera e i sacramenti! Tutto ciò prima di subire il martirio, la cui causa fu la scelta di non rinnegare, nemmeno con le labbra, quel Maestro che infiammava di vita il suo cuore.
È molto forte e suggestivo, pensavo, il simbolo della gola per il quale è famoso e invocato quale protettore. Dalla gola scorre il respiro, cioè la vita; là dove entra acqua e cibo: ancora la vita. Da lì vengono modulate le parole, che ci mettono in comunicazione gli uni gli altri, e quindi in comunione, in relazione. La cura di quest’organo del nostro corpo mi pare perciò segno eloquente di un Dio che è quel Padre dalla «mano potente» di cui parla san Pietro nella sua Prima lettera: «Egli ha cura di voi», e ci chiede di «gettare-riversare in lui ogni nostra preoccupazione» (1Pt 5,6).
Ecco, allora, la cifra della festa odierna – culmine dell’anno curato dall’’84 – e dell’anno che vedrà collaborare fianco a fianco i fratelli della Classe ‘86: essere prima di fare; essere in relazione gli uni gli altri, da buoni cristiani, da degni figli di tanto Padre, da veri fratelli e discepoli di Gesù, che amano e si prendono cura materialmente e spiritualmente gli uni degli altri, che costruiscono come artigiani la riconciliazione e il perdono reciproco, che non si vergognino di ascoltare e di annunciare la bella notizia (Vangelo!) che Cristo è veramente risorto. In collaborazione con i preti, i catechisti, ecc., sarà questa la strada per rendere ancora attuale e possibile la comunicazione e la diffusione della pace! Pensiamo all’amato Papa Leone: dal giorno del suo primo affaccio dalla loggia centrale di san Pietro, non fa che ripetere il saluto di Cristo nel giorno di Pasqua:
«La pace sia con voi». O pensiamo che Vignanello – per non andare troppo lontano – non abbia bisogno di questa pace? La pace vera, quella divina, che è comunione di cuori a tutti i livelli e scambio di reciproco amore, solo il Signore risorto la può dare. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). È la pace, la gioia e la “vita nuova” che ci viene comunicata specialmente nella Messa, che è la «cena di nozze dell’Agnello» – come dirò innalzando l’Ostia fra poco. Beati voi, beati noi che siamo invitati a queste nozze!
Sforziamoci, allora, cari fratelli e sorelle, di smontare la cornice della vita dei nostri Santi, ovvero quegli aspetti, quelle cose o vicende – come dicevo prima – che ce li fanno sentire distanti e inattuali per noi. Torniamo a gustare il cuore e il centro dell’opera d’arte, ciò che li ha resi speciali e degni del ricordo e del nostro affetto, per sentirli sinceramente vicini, e veramente amici e intercessori.
E qual è questo cuore nella vita dei nostri Patroni? È la fiducia smisurata nel Dio nella vita e l’abbandono in lui senza riserve. Solo intorno a questo cuore pulsante e a questa bellezza possiamo e dobbiamo costruire l’opera d’arte della nostra vita, quadro e cornice. Anche il nostro fare ed ogni nostra iniziativa avrà veramente un’anima.
Gesù, nel Vangelo di oggi, dichiara stolto colui che «non si arricchisce presso Dio». Il cristiano si arricchisce sì, ma non di beni, non di cose, non di applausi, non dell’idolo satanico dell’apparire e del potere.
Il ricco agricoltore del Vangelo, strappato ai suoi beni dalla “trista mietitrice”, la morte, rimane svuotato e diseredato per sempre. È rimasto vecchio dentro fino alla fine.
Non ha ancora capito la lezione del Vangelo di Marta e Maria di 2 domeniche fa: la parte migliore, ovvero la relazione vitale con Gesù, l’uomo nuovo, non avrà mai fine e non ci sarà mai tolta: è una eredità da miliardi di dollari spirituali, un pozzo senza fine, gioia illimitata, soltanto velatamente immaginabile, ma realmente raggiungibile. Così ci esorta oggi san Paolo nella II lettura: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio […]. Voi infatti siete morti [nel battesimo] e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3,1-5.9-11). Ecco dove stanno Giacinta e Biagio, e in quale gloria potremo vivere, eternamente immersi, anche noi!
Cari amici, sperando che tutto quello che ho detto sia stato almeno in parte vissuto dal Comitato 1984 lasciando una traccia indelebile, in tutte le cose belle che ha realizzato e che in questi giorni vedono il loro vertice, li ringrazio di cuore a nome del Parroco e della Comunità, e li benedico. Allo stesso tempo auguro al Comitato ’86 di spingersi anche oltre e con coraggio. Se non ci studiamo almeno di incuriosirci delle “cose” di Cristo, di rimanere “cercatori” di Dio, fra l’organizzazione di un evento e l’altro, di scavare con intelligenza dentro le meravigliose ricchezze di Dio di cui la Chiesa è custode, rischiamo di non poterci godere appieno il vero tesoro che ci attende.
A quanti sono preoccupati, disagiati, ansiosi o senza speranza per qualsiasi ragione, Gesù rassicura – è il Vangelo di Matteo – che il Padre vostro celeste sa di che cosa abbiamo bisogno. E soggiunge: «Ma cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù» (Mt 6,32-33).
Colui che salva, Gesù Cristo, colui che illumina, colui che nutre e disseta, colui che è via, verità e vita, colui che ora è presente in mezzo a noi, risorto e portatore della sua pace, desidera darsi a noi e rendere possibile tutto quello che abbiamo detto”.