
Una rivistazione del classico shakespeariano, ambientato tra Pisa, Lucca e Firenze degli anni ’30 anziché nella originale Padova di fine ‘500, ha portato sul palcoscenico del teatro romano di Ferento l’intreccio incentrato sulle due coppie Caterina e Petruccio, interpretati con grande bravura da Armanda Sandrelli e Pietro Bontempo, e Bianca e Lucenzio (Lucia Socci e Andrea Costagli).
Due sorelle, due personalità e due anime molto distanti, entrambe da “maritare”. In questa versione è la madre Eleonora (Giuliana Colzi) a dover decidere i migliori partiti per le figlie.
Una, Bianca, la figlia minore, docile, remissiva. L’altra Caterina, la figlia maggiore, bisbetica da domare, libera, forte, risoluta che sogna un matrimonio d’amore e non di convenienza. Questa, apparentemente senza pretendenti, viene individuata dal lestofante Petruccio che punta solo alla dote della giovane ribelle e convince la madre a dargliela in sposa. Questo attiverà tutta una serie di umiliazioni, privazioni e violenze domestiche che piegheranno la ruvidità di Caterina rendendola completamente sottomessa e annientata alle sue volontà, il tutto condito da un linguaggio diretto, irriverente e a tratti scurrile. D’altro canto emergerà la finta docilità della dolce Bianca, poi non così tanto ubbidiente al marito. Un finale amaro che lascia il pubblico di oggi contrariato rispetto al patriarcato dell’epoca shakespeariana.
Il pubblico percepisce perfettamente la visione contrariata di chi porta in scena un maschilismo ed un autoritarismo oggi categoricamente rifiutati, ma purtroppo talvolta ancora attuali e radicati. Tutti avremmo preferito che l’eroina rimanesse indomata, magari spigolosa e graffiante, ma libera.
Alessia Satta






